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Jouer Relier Colonnes

Fino a che età ha abitato lì?

In ogni caso alla fine Disney accettò il suo tratto innovativo.

Una storia incredibile!

E quando disegnò la sua prima storia delle Giovani Marmotte? Le venivano date delle spiegazioni su come disegnarle?

Come ha iniziato a fare il disegnatore?

È stato difficile?

Quindi in quei tempi era pulita?

E Carl Barks l’ha mai conosciuto?

Tornando alle Giovani Marmotte, lei l’ha poi letto il famoso Manuale?

Ma è vera la leggenda secondo cui le caddero delle tavole in vaporetto e le vide l’allora fidanzata e poi moglie di Scarpa?

Come sta passando questo periodo? È difficile?

Capisco. È molto importante sapere che qualcuno apprezza il tuo lavoro…

«L’ho incontrato molti anni fa, la prima volta che venne in Italia. Ho una foto insieme a lui e una piccola dedica».

«Certo. Ma non solo io, anche i miei figli! L’ho ripreso in mano di recente proprio per disegnare la copertina di questa nuova pubblicazione che raccoglie tutte le storie più belle: volevo riprendere quella originale ma siccome quella di Carpi mi sembrava troppo militaresca, ho fatto qualcosa di più naturale, anzi diciamo proprio, di più pacifico…».

«Io adesso abito a Mirano, in mezzo al verde e ho lo studio in casa. Sto bene per carità, però se penso a quando stavo a Venezia…».

«Infatti continuo a collaborare con la Francia anche adesso: realizzo copertine per vari mensili di Hachette».

«Sì è vera ma non mi caddero: le stavo mostrando a degli amici e lei le vide. Le chiesi subito il numero di Scarpa. Sapevo che abitava a Venezia e avevo provato per giorni a chiedere in giro a vari negozianti se per caso lo conoscevano ma fino a quel momento niente da fare. Avevo quattordici anni e i miei insistevano perché facessi il perito chimico ma io avevo altre idee, così gli telefonai subito. Lui mi disse che aveva proprio bisogno di un collaboratore perché il suo se n’era andato una settimana prima. Una fortuna. Ma c’è un’altra cosa incredibile: dopo tanti anni, il giorno in cui festeggiavo il mio sessantesimo compleanno mi telefonò il parroco di Jesolo, don Paolo Donadelli, e mi disse: “Ho seguito tutta la sua carriera e voglio dirle una cosa perché devo fare un’operazione e non so se sopravviverò: lei non sarebbe mai diventato il collaboratore di Romano Scarpa se non ci fossi stato io. Perché ero io il suo collaboratore prima di lei ma ho avuto una vocazione improvvisa e me ne sono andato per diventare prete: la settimana dopo lei ha preso il mio posto”».

Giorgio Cavazzano e le Giovani Marmotte

«Beh, diciamo che sono sopravvissuto: non è che fosse proprio pulita. Quando avevo sei, sette anni a Venezia si buttavano ancora una parte di rifiuti come le bucce di arancia, di anguria, i fondi di caffè o la famosa miscela Leone direttamente nel canale…».

«Grazie a Luciano Capitanio, cugino da parte di padre. Quando andavo a trovarlo sentivo il profumo della china, della gomma per cancellare e così lui iniziò a farmi squadrare le pagine, cancellarle, usare per la prima volta un pennello e a colorare. Però lui non lavorava con Disney: il contatto in quel caso avvenne grazie a un altro disegnatore veneziano, Romano Scarpa».

«Qualche anno dopo, nel ’72 credo. In quei primi anni facevo vedere i disegni a Romano Scarpa che faceva le sue correzioni. Che, per fortuna, diventavano sempre meno col passar del tempo. Io però poi sentivo l’esigenza di fare qualcosa di diverso. Lo stile di Romano così come quello di molti autori e quello dello stesso Barks mi sembravano un po’ datati: io volevo dinamizzarli con nuove inquadrature, prendendo spunto per esempio dal cinema».

«Miracolosa direi. Ma anche per le Giovani Marmotte c’è un aneddoto: era il 1968 e avevo consegnato la mia prima storia a Mario Gentilini, l’allora direttore di Topolino. Dopo qualche settimana mi telefona, era domenica e mi dice: “Stiamo facendo un’operazione molto importante che riguarda le Giovani Marmotte: ci sono degli americani che vogliono conoscere giovani disegnatore e lei è il più giovane di tutti. Dovrebbe partire immediatamente e venire qui a Verona”. Così parto, arrivo a Verona che allora era la sede principale della Mondadori con la mia Austin Morris strausata con cui dovevo fermarmi ogni venti chilometri perché andava in ebollizione, perdeva olio e così via. Finalmente arrivo ed entro in un parcheggio enorme dove c’era un unico posto libero. Mentre cammino trafelato verso l’ingresso arriva il custode che mi grida “Ma lei è pazzo! Non si rende conto: sposti immediatamente quella macchina, non lo sa che quello è il posto di Arnoldo Mondadori?”. Fu sempre in quell’occasione che conobbi Giovan Battista Carpi che poi avrebbe appunto disegnato il famoso Manuale delle Giovani Marmotte che sarebbe uscito l’anno successivo. Mi disse davanti agli americani: “Devi disegnare un papero che nuota in un laghetto”. Io ero terrorizzato e feci un disegno credo orribile, ma lui sembrava soddisfatto. La sera dovevamo andare tutti insieme nel miglior ristorante della città e poi a vedere uno spettacolo all’Arena ma io quando sono arrivato in hotel mi sono sentito male: avevo solo diciotto anni e l’emozione mi aveva fatto venire una febbre altissima. Insomma fu un disastro: restai in hotel e degli americani non sentii più parlare».

«Sì, con Capelli e il presidente Umberto Virri fui accettato. Anzi mi fecero addirittura fare dei corsi in Accademia Disney per insegnare ai giovani disegnatori, andarono avanti per più di quattro anni».

«Fino a quattordici anni. Ho imparato a nuotare nel canale di casa, abitavo a Cannaregio vicino al Ghetto».

«Certo. Dopo un po’ venni chiamato a Milano da Mario Gentilini che mi disse: “Cavazzano lei deve assolutamente tornare allo stile che aveva prima”. Dissi di sì, tornai a casa e continuai con il mio stile. Qualche tempo dopo mi richiamò dicendo: “Gli americani non vogliono più il suo lavoro”. Così andai a lavorare in Francia al Topolino francese: mi dissero che non c’era problema, per loro il mio stile andava bene. Poi Gentilini venne giubilato e subentrò Gaudenzio Capelli che mi richiamò e voleva addirittura l’esclusiva per l’Italia. Accettai di tornare ma pretesi di poter continuare a lavorare con i francesi perché non solo mi avevano salvato ma mi avevano fatto sentire veramente autore, non un semplice esecutore».